di Franco Foschi
Finalmente, dopo un lungo inseguimento fatto di messaggi di
posta, elettronica, di posta tradizionale, di messaggi tramite interposta persona,
e dopo un breve incontro a Bologna, sono riuscito a raggiungere Stefano Cenerini
a Matibi.
L'impatto con l'ospedale è stato, diciamo così, pittoresco: era
una domenica pomeriggio e siamo stati chiamati, subito dopo il nostro arrivo
alla missione, per un'urgenza piuttosto prosaica, che non vale la pena raccontare.
E che comunque mi ha offerto subito il polso della situazione che avrei dovuto
affrontare. Avevo già viaggiato in Africa più volte e in numerosi
altri paesi del mondo povero in giro per il globo. Ma avevo sempre fatto campagne
vaccinali, studi epidemiologici o infettivologici (una volta, per un mese, in
Guinea, Conakry, avevo catturato zanzare nelle bottiglie, dopo averle ben bene
ubriacate), e le mie visite negli ospedali erano state, appunto, visite, e nulla
più.
Ora, a Matibi, mi aspettavano venti-giorni-venti di full immersion nella realtà
di un ospedale missionario. I primi tre-quattro giorni sono rimasto piuttosto
sconcertato: che c'entrava tutto quello che vedevo con la medicina che faccio
di solito? Come, potevo affrontare l'incredibile quantità di persone
che aspettava fuori dagli ambulatori tutte le mattine? Come potevo, io pediatra
che ha sempre fatto il pediatra, interpretare quella immensa rete di patologie
di tutte le età che vedevo nelle 123 persone ricoverate nell'ospedale?
Come avrei potuto essere di qualche utilità in sala operatoria? Anzi,
ammetto che un pochetto di sconforto dopo il primo giorno, l'avevo: come mai
potrò essere di aiuto, in generale, a Stefano?
Ma visto che la freccia del tempo va in una sola direzione, il secondo giorno
è passato, e anche il terzo, e il quarto, e improvvisamente ti rendi
conto che hai capito tutto, e se non tutto molto.
Innanzitutto comprendi che, quel poco che fai, anche se poco, è comunque
più di zero. Poi diventi quasi bravo: per quanto mi riguarda più
le giornate trascorrevano e meno avevo bisogno di consultare Stefano, potevo
vedere e trattare i piccoli senza più chiedermi 'e adesso?'. E poi ho
fatto anche un paio di diagnosi su bambini che Stefano non riusciva a interpretare,
diagnosi molto specifiche, e ciò ha confortato un poco anche il mio narcisismo
medico.
Il lavoro era tanto, impegnativo, spesso desolante. Capitava di perdere un bambino
('passed away' dicevano gli infermieri al mattino, che afflizione era questa
notizia ogni volta), magari senza capire che cosa era successo, e destinati
a rimanere in questa ignoranza. Oppure, volente o nolente, dovevi fare diagnosi
di sieropositività per HIV (il virus dell'AIDS) in un bambino di quattro
anni in apparente salute: e soffrire perché la diagnosi di questa malattia
in Africa non è una diagnosi, è una constatazione. Che frustrazione
dover dire 'hai l'AIDS, vai a casa e in bocca al lupo', quando sai che il tasso
di morte dei sieropositivi, nel mondo occidentale, è di non più
del 15%...
Ecco, forse la strage che ha il nome di AIDS è ciò che più
dà un senso di sconfitta in Africa, pensando a quanto poco viene fatto
per la malattia ma non solo, anche a quanto è difficile far penetrare,
per motivi culturali, un messaggio di prevenzione tra questa gente.
Ma i motivi di soddisfazione, anche in un ospedale di frontiera come, questo,
si sono rivelati tanti.
Innanzitutto, visto il mestiere che principalmente faccio a Bologna e cioè
il neonatologo, è stato confortante vedere con quanta cura e professionalità
vengono affrontati i tagli cesarei quando necessari. Pensavo a queste ragazzine
di sedici, diciassette anni, altre un metro e quaranta, con dei bacini minuscoli.
Non avrebbero mai partorito anzi con grande probabilità sarebbero morte
di parto loro e i loro bambini. Stefano fa quasi 120 cesarei all'anno, tutti
per questo motivo o altri similari e pensare alla potenziale strage evitata
fa davvero bene. La maggior parte dei ricoveri a Matibi riguarda le donne e
i bambini. Per le prime quasi tutti i problemi sono legati alla gravidanza e
alla maternità. Ciò è comprensibile, i bambini sono la
più grande (quando non, unica) ricchezza di questo popolo, per cui la
gravidanza è un evento che la donna affronta nella vita molte volte (un
esempio: nella cucina dell' ospedale lavorano quattro donne: trentacinque figli
- nella lavanderia tre donne: ventisette figli!). Per quanto riguarda i bambini,
è abbastanza impressionante vedere questi piccoli passerotti che soffrono
per la classica malattia da grave denutrizione proteica col suo nome esotico
di kwashorkor: enormi occhi affranti, nessuna voglia di ridere e tanto meno
di giocare.
Dai loro da mangiare bene per un mese, un mese e mezzo, poi li rimandi a casa:
da dove, dopo qualche tempo, ritornano nelle stesse condizioni di prima.
La povertà è senz'altro la causa della maggior parte delle patologie
che si vedono a Matibi. Ma non solo la povertà materiale, senz'altro
presente, anche quella povertà indotta dalla impossibilità di
accedere alla cultura, al sapere, a concetti basilari come la prevenzione delle
malattie sessualmente trasmesse, la corretta preparazione e conservazione dei
cibi, i concetti di base dell'igiene personale, l'attenzione ai rischi generici
di trauma (quante fratture, e incredibilmente complesse, soprattutto nei bambini,
e i morsi di serpenti, e gli ascessi trascurati fino a diventare quasi incurabili
o a lasciare danni permanenti). Si vorrebbe poter comunicare di più con
la gente, far comprendere, ma la lingua shona è difficile, il tempo poco,
la gente tanta e distante.
Programmi di educazione sanitaria a vasto raggio sembrano doverosi per chi viene
dall'Occidente, magari con un po' di presunzione legata al fatto che la programmazione
è quasi obbligatoria alle nostre latitudini: ma laggiù, in un
ospedale come quello di Matibi, l'importante è soprattutto fare. Le centinaia
di persone che ogni giorno si riversano nell'ospedale lo chiedono.
Al termine del mio meraviglioso viaggio l'impressione che ne ho ricavato è
che l'ospedale di Matibi sia molto bene organizzato, che la maggior parte, delle
figure professionali che vi operano siano molto preparate, che la dignità
e il rispetto per i pazienti non vengano mai a mancare (un esempio su tutti:
nessun paziente non ha il letto. Si effettuano ricoveri solo se vi è
posto, cioè un letto. Quanta gente ho visto sdraiata per terra in un
corridoio in altri paesi), che venga fatto il massimo di quanto possibile, per
non far mancare nessun servizio essenziale.
Ma si ha anche la sensazione che il prezzo che si paghi per tutto ciò
sia altissimo: in tempo, forza e altre risorse sia fisiche che organizzative.
Le carenze sono tante, manca questo manca quello: ma non mancano la pulizia,
l'organizzazione, l'attento utilizzo dei farmaci o dei materiali chirurgici
e soprattutto la disponibilità.
Proprio per queste faticose mancanze Stefano sta cercando di elaborare una rete
di rapporti in Europa che gli consenta di supplire al meglio alle carenze che
i difficili approvvigionamenti in Zimbabwe provocano: io farò sempre
di tutto per aiutarlo e spero che queste modeste righe che ho scritto facciano
fare altrettanto anche a voi che leggete.
Una ultima notazione personale. Il lavoro in ospedale è stato duro e
talvolta frustrante, ci ho messo un sacco per tornare a casa (ho fatto anche
l'autostop ad Harare!), dopo due giorni a Bologna ho pure scoperto che avevo
la Rickettsiosi e sono stato ricoverato dieci giorni al Reparto Infettivi della
mia città: beh, con tutto questo, ripartirei per Matibi domani.